L'uomo guardava oramai da un'ora l'ex capannone industriale
dove si erano rifugiati i due bruti. Se non fosse per le nubi, il
sole ora gli illuminerebbe la schiena. Invece era immerso nelle
tenebre, con il mantello nero completamente fradicio a causa della
pioggia torrenziale che cadeva incessantemente da quando era arrivato;
lì nessuno lo avrebbe visto, mentre lui vedeva perfettamente
le ombre che si muovevano dentro al capannone illuminato.
Durante l'appostamento aveva contato dodici figure all'interno del
capannone industriale, di cui otto avevano i movimenti tipici di
una persona abituata a combattere e ad aspettarsi in qualsiasi istante
un attacco. Altrettante telecamere mobili monitoravano la zona volando
intorno all'edificio a qualche metro da terra. La cosa più
impressionante erano comunque i guardiani della pesante saracinesca
e della porta subito a fianco che costituivano l'ingresso all'ex
capannone: due golem statuari, il cui aspetto ricordava un incrocio
tra un grosso umano ed un coccodrillo per via della possente "coda"
e dei lunghi artigli, affiancati da due gurdvulf e altrettanti tigri
skerra, che nonostante le numerose ossa sparpagliate in giro sembravano
intenzionate a sfogare la loro frustrazione per il fatto di essere
rimaste sotto la piaggia su chiunque fosse capitato loro a tiro.
Il boato di un tuono fece tremare i vetri dei capannoni, ma al contempo
coprì il rumore dell'uomo che balzava su una vicina grondaia.
Si fermò in quel punto nell'attesa del boato successivo,
con il quale raggiunse il tetto leggermente curvo dell'edificio.
L'uomo si accovacciò sul tetto e sfilò dalla spalla
un complesso arco di legno, poi legò una freccia con del
nylon prima di incoccarla.
Rimase lì fermo leggermente inginocchiato, con l'arco teso.
I fulmini cadevano sempre più ritmicamente, e l'uomo li ascoltava
ad occhi chiusi, lasciando che il cuore gli facesse da orologio.
Aprì gli occhi e rilasciò la corda dell'arco. La freccia
fendette l'aria e la pioggia senza provocare alcun suono, a parte
un leggero fischio che si perdeva nel fragore dell'acqua scosciante.
La punta di metallo forò la corazza di una delle telecamere
nello stesso istante in cui scoppiò il boato di un nuovo
fulmine. La freccia e la telecamera rimasero unite per alcuni secondi,
poi la freccia cadde a terra lasciando un foro sulla telecamera.
Lentamente l'arciere iniziò a tirare il filo di nylon, non
tanto per recuperare la freccia quanto per evitare che fosse trovata
vicino alla telecamera. L'acqua piovana entrava nei circuiti della
telecamera una goccia alla volta, provocando una serie di piccoli
corto circuiti nei complessi meccanismi che permettevano il volo,
paralizzandola sul posto. La telecamera volante immediatamente successiva
andò a scontrarsi con quella danneggiata, cadendo insieme
al suolo semi distrutte.
L'uomo si acquattò sul tetto con l'arco poggiato a terra,
in attesa. La porta a fianco della saracinesca si aprì ed
un energumeno ne uscì imprecando per la pioggia. L'arciere
dall'alto del tetto chiuse l'occhio sano e si concentrò su
quello meccanico. In breve vide il volto del bruto come se fosse
a pochi metri da lui. Lo vide dire una parola verso i golem che
lo lasciarono passare pur rimanendo vigili. Il bruto si incamminò
rapidamente verso le telecamere rotte ed imprecò di nuovo,
e senza ombra di dubbio le bestemmie erano rivolte contro colui
che gliele aveva vendute. Prese le telecamere e rientrò di
corsa. L'arciere si rimise l'arco in spalla e chiuse la faretra
poi scese dal tetto usando il tubo della grondaia. Lentamente si
allontanò dal capannone, girò intorno all'edificio
su cui si era arrampicato e raggiunse un tombino.
Si guardò intorno e non notando nessuno, lo sollevò.
L'acqua nelle fogne scorreva veloce ed il livello si alzava senza
tregua sotto la spinta della pioggia torrenziale, spumeggiando ad
ogni curva che era costretta a fare e premendo i detriti che trasportava
contro le grate che attraversava. L'arciere si morse un labbro poiché
questo rendeva più difficoltoso avvicinarsi al capannone
senza essere notati. Richiuse con cautela il tombino e tornò
a guardarsi intorno. Con passo leggero, muovendosi di ombra in ombra
come se fosse parte di esse, si incamminò verso la sua meta,
ma fu costretto a bloccarsi quasi subito; il suo orecchio allenato
aveva percepito il rumore morbido e ripetitivo dei passi lungo la
via alle sue spalle tra un tuono e il successivo.
Si gettò istintivamente in un vicolo laterale, appiattendosi
contro il muro dietro ad alcuni bidoni di immondizia. Lentamente
i passi si fecero più vicini, ed il ladro contò mentalmente
che dovevano trattarsi di sei od otto persone, quattro delle quali
portavano stivali con rinforzo in ferro poiché ad ogni passo
stridevano contro le pietre bagnate della strada e tutti tranne
un paio avevano ricevuto un ferreo addestramento militare in quanto
avanzavano marciando, gli stivali che toccavano per terra quasi
nello stesso istante. Mentre si avvicinavano notò che c'era
un altro rumore, come se stessero facendo strisciare qualcosa di
morbido per terra, raschiandolo e strattonandolo di tanto in tanto.
Lentamente vide comparire due soldati nelle loro tipiche armature
rosse blasonate con lo stemma degli Hawkwood e della guardia cittadina.
L'elmo metallico li proteggeva bene dalla pioggia ma era evidente
che non erano entusiasti di girare per la città a quell'ora
e con quel tempo da cani. Seguivano due sacerdoti vestito dei sai
neri semplici, zuppi di pioggia. Il simbolo sul mantello, gli occhi
freddi e determinati che si muovevano ovunque scrutando con fare
al limite del paranoico ogni ombra, le sciarpe con cui si coprivano
il volto li identificava come seguaci del Tempio Avesti. Uno di
loro, probabilmente il fratello di grado maggiore, trascinava senza
cura una donna dall'aspetto aggraziato nonostante i lividi e le
ferite che aveva ovunque sul corpo. Sulla fronte aveva un piccolo
tatuaggio rosso a forma di occhio semiaperto, inscritto in una linea
arcuata, rappresentante il simbolo di una divinità pagana,
ma era disegnato male o sbagliato in molti punti; probabilmente
la donna l'aveva scelto per motivi estetici e non per motivi rituali.
Le vesti lacerate mostravano anche il marchio che gli Avestiti imponevano
agli psichici che catturavano. La strega psichica era solo parzialmente
cosciente di ciò che le accadeva intorno o forse cercava
volontariamente di estraniarsi per fuggire dal dolore che la attendeva
e che precedeva la morte a cui sarebbe sicuramente andata incontro,
forse come capro espiatorio per il maltempo che imperversava, o
forse no. Ad ogni modo gli Avestiti avrebbero punito il suo crimine,
essere nata diversa, con la morte.
Chiudevano la processione un Frate Combattente e altre due guardie
cittadine. Nemmeno loro apprezzavano il tempo, ma forse nei loro
sguardi vi era un po' di pietà per la misera creatura che
gli stava davanti, abbastanza da impedirgli di percuoterla ulteriormente.
L'uomo rimase in attesa, trattenendo il fiato per evitare che la
condensa rivelasse la sua presenza. Il gruppo passò senza
notarlo e l'uomo riprese a concentrarsi sul suo obiettivo. Oramai
non mancava molto a raggiungere il retro dell'edificio. Un paio
di minuti dopo si trovava dietro un capannone vuoto, il quale era
esattamente alle spalle del suo obiettivo.
Estrasse dalla cintura un pesante portafoglio in pelle che una volta
aperto rivelò di contenere tutta una serie di cacciaviti,
pinze, chiavi di metallo e magnetiche, bustine di olio e tutta una
serie di arnesi atti allo scasso. In un minuto, senza fare alcun
rumore, aveva aperto una delle finestre ed era entrato nel capannone
vuoto. Dentro vi era un buio ancora più profondo di quello
che c'era all'esterno, ma l'occhio meccanico riusciva lo stesso
a distinguere le forme degli oggetti presenti, permettendogli di
attraversarlo senza incidenti.
Raggiunse la porta e rimase in attesa. Appena vide che la fila delle
telecamere volanti si interrompeva, dato che le telecamere rimanenti
non riuscivano più a coprire per intero il lato corto posteriore,
aprì la porta e mise un pezzetto di scotch sulla serratura
in modo che il vento la facesse sbattere come se l'avesse scardinata.
Rimase nuovamente in attesa, calcolando la velocità delle
telecamere e la distanza. I minuti passarono mentre l'uomo rimaneva
completamente immobile. Il rombo di un tuono particolarmente vicino
fu come il segnale di "via" ad una gara. Si mise a correre
in diagonale mentre le telecamere sparivano sul lato sinistro e
ricomparivano da quello destro. Nonostante il vento contrario che
comunque aiutava a nascondere il suo odore agli animali da guardia,
raggiunse l'angolo sinistro un paio di secondi prima della telecamera
e si appiattì contro il muro mentre le telecamere gli passavano
a pochi centimetri dal naso. Non udì i golem avvicinarsi
né la saracinesca alzarsi; era riuscito a rimanere al di
fuori del campo visivo delle telecamere.
Mentre le telecamere gli passavano davanti, il ladro notò
che le finestre al piano terra erano state sbarrate dall'interno
e che vi erano numerose trappole attaccate. Guardò in alto,
notando che lì le finestre erano libere, poi si sfilò
con calma la faretra dalla spalla e l'appoggiò lentamente
al muro. L'aprì lentamente per evitare di fare rumore, poi
con le dita toccò le penne delle varie aste, fino a quando
non ne riconobbe una dal taglio particolare. La estrasse con delicatezza;
la punta della freccia era strana, un sacchetto molliccio di sintopelle
a forma di semisfera chiuso in cima con vari lacci e cerniere. L'altra
estremità era invece legata ad una lunga corda in sintoseta,
leggera ma resistente ed in grado di reggere enormi pesi senza nemmeno
perdere di elasticità. Prese la freccia con i denti, poi
iniziò a sfilare lentamente l'arco, badando di non toccare
le telecamere. Appoggiò l'arco a terrà ed approfittò
del buco nel cerchio delle telecamere per slacciare rapidamente
i lacci e aprire le cerniere del sacchetto che chiudeva la freccia.
All'interno c'era una sostanza gelatinosa, densa e appiccicosa di
color ambra con l'asta della freccia immersa per alcuni centimetri.
Lentamente la colla stava diventando trasparente, segno che iniziava
a solidificarsi. Attese pazientemente che le telecamere passassero
e non appena scomparvero dietro l'angolo incoccò la freccia
e la tirò in alto. Il volo fu lento a causa della colla e
dei contrappesi sull'estremità, che la rendevano pesante,
ma raggiunse il bordo di una delle finestre superiori, producendo
solo un suono morbido e gommoso, non dissimile da quello di una
ventosa; la colla fece presa nonostante la parete fosse bagnata.
Il ladro si rimise in spalla l'arco e la faretra, aspettò
che la colla si solidificasse perfettamente intorno alla punta dell'asta,
poi iniziò ad arrampicarsi fino a raggiungere la finestra.
In quel punto il tetto lo riparava dalla pioggia incessante, rendendo
meno scivolosa la corda. L'uomo si appoggiò con la punta
dei piedi in alcuni buchi presenti nelle pareti dell'edificio, forse
il risultato di qualche scontro a fuoco, ed estrasse il borsellino
con gli arnesi da scasso. Da lì la vista era bloccata da
alcuni vecchi scatoloni e arnesi da fabbrica, ma poteva perfettamente
sentire che qualcuno stava lavorando su di una macchina, con tanto
di fiamma ossidrica e martello, mentre qualcosa produceva un suono
elettronico. Lentamente iniziò a scassinare la finestra,
premurandosi di non fare troppo rumore, agendo in contemporanea
ai tuoni; cinque minuti dopo la finestra era aperta, e lui non dovette
far altro che calare la corda dalla finestra e scendere giù.
L'interno del capannone era ben illuminato, ma colpiva l'incessante
rumore metallico ed elettrico che rimbombava ovunque contro le pareti
munite di pannelli fonoassorbenti, come quello di una grossa macchina
pensante.
L'uomo si guardò in giro con cautela, rimanendo abbassato,
la mano sull'elsa della spada. Il mantello e gli stivali cerati
si erano già asciugati grazie all'aria calda e secca, sebbene
avessero formato una piccola pozzanghera. Purtroppo gli abiti e
le calze non erano state trattate allo stesso modo e i guanti avevano
trattenuto parecchia acqua, inzuppandolo fino al midollo, ma era
una cosa a cui si era abituato da tempo. Si spostò a carponi,
fino a raggiungere una scatola di legno sfasciata con le pareti
piene di buchi a causa dei tarli e della muffa. Attraverso i buchi
vide una decina di uomini, in un ampio spazio ricavato spostando
le scatole dalla zona centrale verso le pareti laterali. Due di
loro, vestiti con camici bianchi talmente sporchi di olio e polvere
da sembrare grigi, si occupavano di sistemare una grossa macchina
simile ad una struttura per la terraformazione in miniatura, controllandone
i parametri e lo stato dei componenti. Quattro erano mercenari armati
fino ai denti, dai muscoli tanto perfetti da sembrare scolpiti nel
marmo nonostante varie cicatrici da battaglia; era evidente che
erano stati un tempo soldati dell'Impero adattatisi a una vita da
mercenari al soldo di mercanti timorosi dei pirati e nobili in cerca
di guardie del corpo. Un altro uomo sembrava un tecnico, ma dai
calli sulle mani grigiastre era facile capire che se la cavava anche
con le pistole. Tre donne vestite con dei leggeri sai controllavano
l'ingresso; l'assenza di armi e l'atteggiamento indicavano una spiccata
preferenza per le arti marziali oltre ad una ferrea disciplina.
Ciò che delle tre donne sconcertava non era l'abilità
nei combattimenti corpo a corpo, quanto i tatuaggi, le cicatrici
rituali e i segni di graffi e morsi di animali. La risposta a quei
segni era seduta su una piccola scatola non lontano dalla macchina
terraformante. Un uomo sulla cinquantina ma ancora robusto ed in
forze stava conversando amabilmente con una bella donna dai vestiti
provocanti, con la pelle liscia ed abbronzata, i capelli neri dai
riflessi castani e gli occhi verdi. L'uomo si chiamava Jean-Leon
della Casata Decados, ed era noto in città per esser un ricco
ed anziano damerino che si divertiva a dare lussuose feste nel suo
maniero o a partecipare a quelle date dagli altri nobili e dai ricchi
mercanti in città; disponeva di numerose amicizie altolocate
e di una cassaforte nascosta dietro al quadro di suo padre, Desmond
Decados, provvista di una elaborata serratura elettronica, contenente
dossier su buona parte degli abitanti della città oltre a
numerosi scritti sulle arti antinomiste, e la cui combinazione non
era mai cambiata nonostante tutte le volte che era entrato nel maniero.
La donna si chiamava Verenyçe e in città si spacciava
per una duchessa Li Halan proveniente da Icona, ma era invece la
somma sacerdotessa di un culto pagano animalista che viveva nelle
foreste e paludi del pianeta. Il culto era intenzionato a combattere
l'avanzare delle macchine, o a scacciare l'umanità "civilizzata"
dal pianeta, fino a ritornare ad un'era oscura, non dissimile da
quella che gli storici chiamavano Era Antica.
A quanto pareva la donna, dopo il fallito tentativo di evocare in
terra il demone noto come il Trickster, aveva deciso di utilizzare
le macchine contro gli altri umani e si era servita del fratello
del suo vecchio alleato Antoine Decados.
Il ladro riprese ad avanzare fino a raggiungere il bordo del muro
di casse e rimase fermo. Poco dopo arrivò dietro alle casse
uno dei mercenari che camminava nervoso per l'attesa; il respiro
lento intervallato da soffi indicava che fumava e che probabilmente
era lì per non dare troppo fastidio ai tecnici. Il ladro
si sporse un attimo da dietro le casse, ritrovandosi al suo fianco.
Quando ritornò dietro le casse alcuni istanti più
tardi aprì uno scatolone con i piedi e ci infilò dentro
delicatamente il caricatore del fucile, una manciata di granate
e 2 pistole. Il bruto si allontanò senza nemmeno accorgersi
che le sue armi erano state sostituite da pezzi di legno e che il
suo fucile era caricato a tavolette di cioccolato, oltre ad avere
i cavi dell'alimentazione dello scudo tagliati e 100 fenici in meno.
L'uomo rimase fermo ancora un paio di minuti, poi scattò
furtivamente verso un'altra catasta di scatoloni; da quanto aveva
visto la macchina era alimentata tramite una serie di batterie a
fusione grandi, ma le luci del capannone sfruttavano la normale
rete elettrica cittadina ed il cavo passava proprio lungo quella
parete.
Quando arrivò li dietro solo la sua lunga esperienza gli
impedì di gridare. Davanti a lui stava un Vorox praticamente
calvo a causa delle numerose cicatrici, grosso anche per la media
della sua razza, e armato come un intero reparto di Hazat. Per pura
fortuna del ladro, il bestione aveva il sonno pesante e faceva uso
di tappi per il naso per non rimanere stordito dalla puzza dei gas
di scarico della macchina; probabilmente si era messo a dormire
lì per non essere troppo disturbato dalla macchina ed al
contempo poter raggiungere in fretta i cancelli in caso di bisogno.
Il ladro girò con fare cauto intorno al Vorox, avendo l'accortezza
di manomettere il sistema di aggancio dell'armatura e della cintura
con le munizioni, mise un po' di colla sui manici delle varie armi,
che svuotò dei caricatori o manomise in modo da incepparle,
poi si diresse fino a una delle prese a muro e vi legò sopra
la sua borraccia con il tappo parzialmente svitato a cui legò
un filo. Al momento opportuno sarebbe bastato un leggero strattone
per far andare in corto circuito l'impianto di illuminazione.
Coperto dal rumore fatto dalla macchina terraformante ritornò
dietro alla pila di casse dove era entrato, rimanendo lì
a osservare.
Rimase immobile, aspettando pazientemente il momento giusto per
agire, con i muscoli pronti a scattare e la mano sull'elsa della
spada, nel caso che qualcuno si accorgesse di lui. I tecnici si
muovevano sempre più agitati intorno alla piccola macchina
per la terraformazione, i soldati e le animaliste invece pareva
che con l'avvicinarsi dell'alba si stavano concedendo un po' di
relax. Verenyçe e Jean-Leon invece rimanevano tranquilli
discutendo con calma, sebbene da dove si trovava il ladro non riusciva
a sentire quello che si dicevano né a leggere le labbra.
Alla fine Verenyçe prese una borsa e ne estrasse un vecchio
libro con le pagine ingiallite e la copertina in cuoio rosso.
Il ladro si mise all'opera in quell'istante. Diede uno strattone
alla corda, facendo finire l'acqua sulla presa e sulla gamba del
Vorox che dormiva lì vicino. La luce saltò immediatamente
e il bestione sorpreso dalla scossa elettrica condotta dall'acqua
saltò su due zampe agitandosi e buttando in giro scatole
e pelo. I lampi fornivano l'unica illuminazione nella stanza, sebbene
la macchina terraformante continuasse a funzionare grazie alle batterie
autonome. Mentre tutti si voltavano verso il Vorox cercando di capire
cose fosse successo, il ladro uscì silenzioso da dietro il
nascondiglio e in poche mosse tagliò i fili che alimentavano
la macchina, prendendo poi sia uno dei dischetti di memoria che
il chip che permetteva di regolare il tempo atmosferico. La scena
all'interno del capannone era al limite dell'onirico; i lampi illuminavano
l'edificio facendo sembrare che i mercenari e le animaliste si muovessero
a scatti per bloccare il Vorox impazzito. Anche per il ladro, che
poteva vedere persino nell'oscurità il tutto aveva un aspetto
psichedelico con le immagini infrarosse dell'occhio meccanico che
si intervallavano a quelle normali dell'occhio sano. Dopo un attimo
di stordimento si mosse verso dove si trovavano Jean-Leon e Verenyçe.
I due nobili (sempre che Verenyçe potesse essere definita
una nobile) erano come ipnotizzati dalla scena, tanto che il Decados
aveva lasciato cadere il libro, cosa di cui l'uomo gli fu grato,
dato che poteva prenderlo senza doverlo stordire con il manganello.
I mercenari iniziarono a coordinarsi urlando e sparando al Vorox
per abbatterlo, e nonostante uno imprecasse perché nessuna
delle sue armi funzionava, la Li Halan si accorse che i lampi si
facevano meno intensi; quando trovò la macchina nell'oscurità,
il ladro era già uscito dalla porta principale, aveva pronunciato
la password vocale che disattivava momentaneamente i golem ed anestetizzato
gli animali con delle fiale di cloroformio.
Recuperando ciò che rimaneva della bambola della bambina
da un cassonetto posto sul lato opposto rispetto a quello che aveva
monitorato all'inizio di quella nottata, il ladro non poté
non sorridere quando udì l'urlo di Verenyçe e del
Vorox, che insieme formavano un boato simile a quello di una foresta
abbattuta da un potente colpo di vento. Passarono pochi secondi
nei quali all'urlo dei due si unì quelli dei mercenari. Poi
tutto tacque e quel silenzio fu, per l'uomo abituato a muoversi
senza produrre alcun suono, molto più inquietante delle urla
disumane precedenti. In pochi secondi si portò lontano, sui
tetti a lui familiari ad osservare Verenyçe e Jean-Leon uscire
dal capannone, fradici di sangue. Victoria si ergeva alta verso
il sole che iniziava a spuntare da dietro le nubi. Le sue dita aggraziate
erano divenute rami lunghi e spinosi mentre i piedi erano possenti
radici millenarie; la sua pelle pallida e vellutata si era trasformata
in corteccia di quercia ed i suoi lunghi capelli di seta ora erano
viticci di edera e rami di salice piangente; resina gialla le colava
dagli occhi tristi ma al contempo splendenti per l'ira provocata
dall'onta subita. Nella sua vera forma Verenyçe era l'incarnazione
stessa degli alberi, nobile e letale, e il piccolo signorotto Decados
non poté far altro che genuflettersi quando lei si volse
a osservarlo piena di ira. In un attimo Verenyçe riassunse
le sue sembianze umane e si allontanò dopo aver congedato
il nobile e distrutto in un nuovo sfogo di rabbia i due golem. Gli
animali la seguirono silenziosi, quasi comprendessero il suo stato
d'animo.
Al ladro non rimase altro da fare che andare alla gilda... ma non
prima di aver ricucito la bambola, pensò tra sé sorridendo
mente il sole illuminava, con la sua luce leggermente più
fioca di quanto lo fosse appena un mese prima, zone sempre più
vaste della città.
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